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La raccomandazione: è possibile eliminarla? È opportuno farne un reato? E, in definitiva, è pensabile un’Italia senza raccomandazione? E che cosa è, psicologicamente, istituzionalmente, questo comportamento indubbiamente aberrante?

Giacché, non v’è dubbio, la raccomandazione è un’istituzione, e quando gli archeologi scaveranno tra i ruderi del Bel Paese, tra mille anni, dovranno catalogare e archiviare a parte tutti i documenti che con la raccomandazione hanno a che fare; e forse sarà l’archivio di tutti più imponente, e verrà confrontato con le piramidi egizie, e qualcuno sospetterà che quelle piramidi altro non fossero che depositi di raccomandazioni, cataste, silos, contenitori giganti.

A ben pensarci, non è facile definire la raccomandazione. Essa ha due volti: la prevaricazione e la frustrazione; ha una matrice: la sfiducia, organica, immedicabile, nella giustizia di qualsivoglia ordinamento di questa nazione e, in più, un segreto, tetro, elusivo rispetto per l’ingiustizia, la potenza, la capacità di agire; come se solo l’astuzia e la larvata minaccia o l’interessata benevolenza potessero far sì che qualcosa accada. La raccomandazione presuppone non solo un potente, ma un debole; ed il potente ama i deboli di un affetto cannibalesco, giacché essi sono il pascolo dei suoi candidi denti. L’Italia non pare interessata all’idea di una società giusta; essendo una società di moltissimi deboli e pochi potenti, è una società di complici. Abolire la raccomandazione, e per legge, vuol dire proibire ai deboli di essere tali, ed ai potenti di godere di potenza.

La raccomandazione, atto di pacifica ingiustizia, ha odore più di «peccato» che di reato. Rammento di aver letto in un trattato di psicoanalisi il resoconto di un sogno, che mi pare mirabile: il paziente raccontava di essersi visto ospite di un albergo lussuoso e incredibilmente elegante, con stanze vaste e ricche; solo che l’albergo era del tutto privo di gabinetti. Pertanto tutti gli ospiti personaggi altolocati erano costretti a defecare dovunque: per le scale, in ascensore, nella hall, nei corridoi. L’albergo lussuoso era dunque pieno di feci, e di signori e signore ben vestite che defecavano ed orinavano dovunque; il sognatore confessava di aver provato un acuto disagio; ma di aver notato che per i frequentatori, gli habitués, quel comportamento era diventato affatto naturale, disinvolto e inodore.

(Giorgio Manganelli, 17 ottobre 1982)