Brani più votati dagli istituti scolastici per il progetto ABC.
George Santayana, Reason in common sense, 1905 (leggi)
Noam Chomsky, Le 10 regole per il controllo sociale, 1973 (leggi)
Pier Paolo Pasolini, “Scritti Corsari”, 1975 (leggi)
Benjamin Franklin, 17 febbraio 1775 (leggi)
George Orwell, “1984” (leggi)
Pier Paolo Pasolini, incontro con i giovani della FGCI nel 1975 (leggi)
Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, 1951 (leggi)
Publio Cornelio Tacito, “Historiae”, scritte intorno al 100 d.C. (leggi)
Janusz Korczak, “Come amare il bambino”, 1920 (leggi)
Ilario di Poitiers, “Contro l’imperatore Costanzo”, V sec. d.C. (leggi)
James Madison, “lettera al vicegovernatore del Kentucky William Taylor Barry”, 4 agosto 1822 (leggi)
Ennio Flaiano, “Don’t Forget”, 1967/72 (leggi)
Ivan Illich, “La convivialità”, 1973 (leggi)
Piero Calamandrei, articolo pubblicato sul decimo numero de “Il Ponte” nel 1946 (leggi)
Tiziano Terzani, “Un indovino mi disse” (leggi)
Italo Calvino, “Le Città Invisibili”, 1972 (leggi)
Nikolaj Vasil’evič Gogol’, “Anime morte”, 1842 (leggi)
Giorgio Amendola, “prefazione agli scritti di Eugenio Curiel”, 1973 (leggi)
Noam Chomsky, Le 10 regole per il controllo sociale, 1973
1 – La strategia della distrazione.
L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti.
La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica.
“Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali”.
2 – Creare il problema e poi offrire la soluzione.
Questo metodo è anche chiamato “problema – reazione – soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare.
Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà.
Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3 – La strategia della gradualità.
Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi.
Questo è il modo in cui condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte negli anni ‘80 e ‘90: uno Stato al minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
4 – La strategia del differire.
Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro di quello immediato.
Per prima cosa, perché lo sforzo non deve essere fatto immediatamente.
Secondo, perché la gente, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato.
In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento.
5 – Rivolgersi alla gente come a dei bambini.
La maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente.
Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad usare un tono infantile.
Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se questa avesse 12 anni o meno, allora, a causa della suggestionabilità, questa probabilmente tenderà ad una risposta o ad una reazione priva di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno.
6 – Usare l’aspetto emozionale molto più della riflessione.
Sfruttare l’emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell’analisi razionale e, infine, del senso critico dell’individuo.
Inoltre, l’uso del tono emotivo permette di aprire la porta verso l’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o per indurre comportamenti.
7 – Mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità.
Far sì che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.
“La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall’ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori”.
8 – Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità.
Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.
9 – Rafforzare il senso di colpa.
Far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo.
In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di repressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. E senza azione non c’è rivoluzione!
10 – Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca.
Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno creato un crescente divario tra le conoscenze della gente e quelle di cui dispongono e che utilizzano le élites dominanti.
Grazie alla biologia, alla neurobiologia e alla psicologia applicata, il “sistema” ha potuto fruire di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psichicamente.
Il sistema è riuscito a conoscere l’individuo comune molto meglio di quanto egli conosca sé stesso. Ciò comporta che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un più ampio controllo ed un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su sé stessa.
Pier Paolo Pasolini, “Scritti Corsari”, 1975
Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che i vizi di questo Paese – speciale nel vivere alla grande ma con le pezze al culo – sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale.
Benjamin Franklin, 17 febbraio 1775
Chi è pronto a dar via
le proprie libertà fondamentali
per comprarsi briciole
di temporanea sicurezza
non merita né la libertà
né la sicurezza.
George Orwell, “1984”
Chi controlla il passato
controlla il futuro.
Chi controlla il presente
controlla il passato.
Pier Paolo Pasolini, incontro con i giovani della FGCI nel 1975
Se voi volete essere una nuova generazione di giovani infinitamente più matura, dovete abituarvi anche a questa atrocità del dubbio, anche a questa sottigliezza sgradevole del dubbio, dovete cominciare a dibattere veramente i problemi, ma veramente! Non formalmente. Si applaudono sempre dei luoghi comuni: bisogna ragionare, non applaudire o disapprovare!
Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, 1951
Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.
Publio Cornelio Tacito, “Historiae”, scritte intorno al 100 d.C.
Da quando, nell’interesse della pace, si dovette affidare il potere a uno solo la verità fu in più modi offesa, prima per ignoranza della politica come di cosa spettante ad altri, in seguito per incontenibile voglia di adulazione compiacente o, al contrario, per odio contro i dominatori: così, tra ostili e servili, nessuno si è dato pensiero della posterità.
Janusz Korczak, “Come amare il bambino”, 1920
Vogliamo un educatore che
non schiaccia ma libera,
non trascina ma innalza,
non opprime ma forma,
non impone ma insegna
non esige ma chiede.
Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo, V sec. d.C.
Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro.
James Madison, lettera al vicegovernatore del Kentucky William Taylor Barry, 4 agosto 1822
Nulla potrebbe essere più irragionevole che dare potere al popolo, privandolo tuttavia dell’informazione senza la quale si commettono gli abusi di potere. Un popolo che vuole governarsi da sé deve armarsi del potere che procura l’informazione. Un governo popolare, quando il popolo non sia informato o non disponga dei mezzi per acquisire informazioni, può essere solo il preludio a una farsa o a una tragedia, e forse a entrambe.
Ennio Flaiano, “Don’t Forget”, 1967/72
Fra trent’anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione.
Ivan Illich, “La convivialità”, 1973
Può darsi che gli uomini, terrorizzati dall’evidenza crescente del sovrappopolamento, dall’assottigliarsi delle risorse e dall’organizzazione insensata della vita quotidiana, rimettano spontaneamente i loro destini nelle mani di un Grande Fratello e dei suoi anonimi agenti. Può darsi che i tecnocrati siano incaricati di condurre il gregge sull’orlo dell’abisso, cioè di fissare dei limiti pluridimensionali allo sviluppo, immediatamente al di qua della soglia dell’autodistruzione. Una tale fantasia suicida manterrebbe il sistema industriale al più alto grado di produttività sostenibile. L’uomo vivrebbe in una bolla protettiva di plastica che l’obbligherebbe a sopravvivere come un condannato a morte in attesa di esecuzione. (…)
L’avvento del fascismo tecno-burocratico non è scritto negli astri. Esiste un’altra possibilità: un processo politico che permetta alla popolazione di stabilire il massimo che ciascuno può esigere, in un mondo dalle risorse manifestamente limitate; un processo che porti a concordare entro quali limiti va tenuta la crescita degli strumenti; un processo che incoraggi la ricerca radicale intesa a far sì che un numero crescente di persone possa fare sempre di più con sempre meno. Un programma del genere può ancora apparire utopistico al punto in cui siamo: se si lascia aggravare la crisi, lo si troverà ben presto di un realismo estremo.
Piero Calamandrei, articolo pubblicato sul decimo numero de “Il Ponte” nel 1946
Quel miracoloso soprassalto dello spirito che si è prodotto, quando ogni speranza pareva perduta, in tutti i popoli europei agonizzanti sotto il giogo della tirannia interna ed esterna, ha ormai ed avrà nella storia del mondo un nome: “Resistenza”.
Sotto la morsa del dolore o sotto lo scudiscio della vergogna, gli immemori, gli indifferenti, i rassegnati hanno ritrovata dentro di sé, insospettata, una lucida chiaroveggenza: si sono accorti della coscienza, si sono ricordati della libertà. Prima che schifo della fazione interna, prima che insurrezione armata contro lo straniero, questo improvviso sussulto morale è stato la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza: sete di verità e di presenza, ritorno alla ragione, all’intelligenza, al senso di responsabilità. La Resistenza è stata, nei migliori, riacquisto della fede nell’uomo e in quei valori razionali e morali coi quali l’uomo si è reso capace, nei millenni, di dominare la stolta crudeltà della belva che sta in agguato dentro di lui.
Si è scoperto così che il fascismo non era un flagello piombato dal cielo sulla moltitudine innocente, ma una tabe spirituale lungamente maturata nell’interno di tutta una società, diventata incapace, come un organismo esausto che non riesce più a reagire contro la virulenza dell’infezione, di indignarsi e di insorgere contro la bestiale follia dei pochi.
Questo generale abbassamento dei valori spirituali da cui son nate in quest’ultimo ventennio tutte le sciagure d’Europa, merita di avere anch’esso il suo nome clinico, che lo isoli e lo collochi nella storia, come il necessario opposto dialettico della resistenza: “Desistenza”. Di questa malattia profonda di cui tutti siamo stati infetti, il fascismo non è stato che un sintomo acuto: e la Resistenza è stata la crisi benefica che ci ha guariti, col ferro e col fuoco, da questo universale deperimento dello spirito.
Così ci illudevamo due anni fa, alla vigilia della liberazione. Ma oggi ci sembra di avvertire d’intorno a noi e dentro di noi i sintomi di un nuovo disfacimento.
Ciò che ci turba non è il veder circolare di nuovo per le piazze queste facce note: il pericolo non è lì; non saranno i vecchi fascisti che rifaranno il fascismo. Che tornino in libertà i torturatori e i collaborazionisti e i razziatori, può essere un’incresciosa necessità di pacificazione che non cancella il disgusto: talvolta il perdono è una forma superiore di disprezzo.
No, il pericolo non è in loro: è negli altri, è in noi: in questa facilità di oblio, in questo rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, in questo riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato.
(…) Finita e dimenticata la resistenza, tornano di moda gli “scrittori della Desistenza”: e tra poco reclameranno a buon diritto cattedre ed accademie.
Sono questi i segni dell’antica malattia. È nei migliori, di fronte a questo rigurgito, rinasce il disgusto: la sfiducia nella libertà, il desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti. Questo il pericoloso stato d’animo che ognuno di noi deve sorvegliare e combattere, prima che negli altri, in se stesso: se io mi sorprendo a dubitare che i morti siano morti invano, che gli ideali per cui son morti fossero stolte illusioni, io porto con questo dubbio il mio contributo alla rinascita del fascismo.
Dopo la breve epopea della resistenza eroica, sono ora cominciati, per chi non vuole che il mondo si sprofondi nella palude, i lunghi decenni penosi ed ingloriosi della resistenza in prosa. Ognuno di noi può, colla sua oscura resistenza individuale, portare un contributo alla salvezza del mondo: oppure, colla sua sconfortata desistenza, esser complice di una ricaduta che, questa volta, non potrebbe non esser mortale.
George Santayana, “Reason in common sense”, 1905
Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo.
Tiziano Terzani, “Un indovino mi disse”
E’ un aspetto, questo, dello strano mestiere di cronista che non cessa di affascinarmi e, al tempo stesso, di inquietarmi: i fatti non registrati non esistono. Quanti massacri, quanti terremoti avvengono nel mondo, quante navi affondano, quanti vulcani esplodono e quanta gente viene perseguitata, torturata e uccisa! Eppure, se non c’è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive, qualcuno che fa una foto, che ne lascia traccia in un libro, è come se questi fatti non fossero mai avvenuti. Sofferenze senza conseguenze, senza storia. Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta. E’ una triste constatazione ma è così, ed è forse proprio quest’idea – l’idea che con ogni piccola descrizione di una cosa vista si può lasciare un seme nel terreno della memoria – a legarmi alla mia professione…
Italo Calvino, “Le Città Invisibili”, 1972
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Nikolaj Vasil’evič Gogol’, “Anime morte”, 1842
Confondere, confondere: e nient’altro… Introdurre nel caso nuovi elementi estranei, che coinvolgano altri, complicare e nient’altro. E che si raccapezzi pure il funzionario pietroburghese incaricato. Che si raccapezzi… Mi creda, appena la situazione diventa critica, la prima cosa è confondere. Si può confondere, aggrovigliare tutto così bene che nessuno ci capirà nulla.
Giorgio Amendola, prefazione agli scritti di Eugenio Curiel, 1973
Il trasformismo è il vero morbo italico, l’arte del continuo compromesso generale, io aiuto te se tu aiuti me. Bisogna spezzare questa rete malefica e corruttrice. Bisogna lottare, buttando la propria vita in giuoco.